Voci dalla Valle
In questa sezione del sito sono raccolte una serie di interviste raccolte e trascritte in diverse località delle valli. Facendo questo lavoro cerchiamo di andare a raccogliere qualche frammento delle varianti che sono maggiormente "a rischio di estinzione" perché il numero di parlanti è sempre più ridotto. Allo stesso tempo andiamo a mettere in luce aspetti legati sia ai luoghi che al passato.
Un enorme ringraziamento sia a chi è stato disponibile a essere intervistato, sia a chi ha girato le valli per raccogliere le interviste e poi le ha pazientemente riascoltate per trascriverne le parti più interessanti in grafia concordata, sia ancora a chi ha fatto la revisione dei testi. Mersì eun barò a tuts!
Eicolo senso lou patouà
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eicolo_senso_patoua La Valaddo |
0.1 MB | 0:37 min | |||
A Peiroû nou fan l'eicolou dë patouà. Mi cant anavou a l'eicolo, se la magistra mi sentìa parlâ ën patouà a mi runjava e am butava un brut voto: assolutament a voulin pa che së parleise patouà nunc tra noûzaoutri. E nuc cant s'anâ l'eicolou noû savin nen d’aoutre! Noû savin moc lou patouà, aloura l'italian ou lou capis pa granquè e se noû pouin nhanc parlâ patouà tra noûzautri l’ero pa tan boun fait...
A Perosa facciamo la scuola di patouà. Ma io, quando andavo a scuola, se la maestra mi sentiva parlare in patouà, mi sgridava e mi metteva un brutto voto: non volevano assolutamente che si parlasse patouà neanche tra di noi. E solo che quando siamo andati a scuola noi non sapevamo parlare altro! Sapevamo solo il patouà, allora l'italiano non lo capivamo granché e se non potevamo parlare tra di noi patouà, non era mica tanto facile...
Lëngo dë la vitto
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lengo_de_la_vitto La Valaddo |
0.4 MB | 3:04 min | |||
Che cosa è il patoua?
Alour, lou patouà l'è la lëng dë la vitto e lâ parolla quë mi pensou cant siou për moun contiou, quë pënsou soc ai fait ën lâ journâ, l'è cant contiou, l'è cant chantou, l'è cant vaou culhî lî boulé. Siou për miou count, pënsou ën patouà e parlou ën patouà.
Lou patouà l'è la primo lëngo qu'ai sentì cant ai d'artiglior e l'è lâ driera parolla qu'un dì a uno përsouno contulurseleglior. Alour lou patouà a l'è propri la lëng dë notro vitto.
Che cosa è il patoua oggi?
Lou patouà ënquei l'è un po' diferent, përqué queulli quë l'an couminsâ parlâ patouà ooub mi peirlato lëngo materna disouma dë la maire, la prima lëngo quë l’an sentì parlâ alouro l'è uno cosou.
Queulli invece in Peirou, lî jû n'a pochissimi, ne pa pi bien che parlën patoua, e alouro per lour l'è uno deicuberto, l'è deicubertî tuërnou calcosou. Miei cit li ai l'eicolo, su toutta la class quë ai agù, ne avrei forsu un su darset, su darjot che parlaou ën patoua, o qu'avin li don quë parlaou patoua. Però lour bisondei qu'a l'ero uno longo empourtant qui l'î ëncaminâ deiparei se ni sarens pa nhun quë lo parlou. E aloura teu tuorno parlâ patouà, fose parlaou entr li don, in maniero che la sia lour quë vëdian la cosa e mi vëdiu ler nantrasa surtut si sanchi uno lëngo che parlou ancor lour don e qu'î l’han impurtanzo. Î l’han agù groz impourtanzo për li don e quindi i n'a ëdcò par lour si volou parlâ patouà.
Però disuma quë la Val Germanasco n'è ëncaro bien che parlou ën patouà. N'è d'ëntiera famillha e surtut a Prâl, a Prìe. A Poumarèt i l'an tuërn tacâ parlâ patouà, invece mi età la së parlaou pa pi. Parlaou italian e peui î imparaou lou patouà pì tard. Ënvece nela Val Quisoun n'è pa pi bien, î l'è bien de vari sû, perqué plu Fort per lou discurdia da Fort che vennuliur sor da fort e alcuno i lan lascia perde patouà e poi forsi î l'an tacâ (travalhâ) ën fabrico pi vitte rispetto a Val Germanasco, î l'an pì tost parlà lou piemounté pi tantou patouà.
Il patouà di Bourcet
La variante patouà di Bourcet presenta alcune peculiarità dovute all'isolamento che la popolazione del villaggio ha vissuto, e che si è protratta fino all'esodo avvenuto a metà del secolo scorso, data la conformazione geografica del vallone, in comunicazione con l'abitato di Roure in Val Chisone e con quello di Massello in Val Germanasca ma raggiungibili non facilmente soprattutto nella lunga stagione invernale. In particolare si segnalano la sostituzione della vocale "i" al posto della "r" come nella parola laic (larc) e nell'espressione "a l'èibo" ("a l'èrbo"), che indica l'attività di monticazione degli armenti nel periodo estivo.
Dal punto di vista fonetica occorre segnalare una pronuncia dolce che si manifesta per la l, la r, e la m e graficamente trascrivibile con una tilde o con la lettera sbarrata (es. l=ł; nel testo éicoło).
L'intervista è stata condotta a Liviana Charrier, un'ex abitante della borgata principale di Bourcet, Chasteiran, nata nel 1951 allorquando lo spopolamento era già in atto ma i cui ricordi, pur avendo vissuto stabilmente in Bourcet solo gli anni dell'infanzia, sono ancora vividi.
Si è pensato di raccogliere una storia di vita, per rendere la spontaneità del parlato e in quanto non sussistono ricordi specifici di cultura materiale, di attività lavorativa e di vita quotidiana se non, appunto, quella dell'infanzia.
All'intervistata è stata proposta una traccia di intervista suddivisa in tre parti (note biografiche; ricordi; indagine sociolinguistica)1 che ha permesso di approfondire da un lato la storia personale, unitamente alla percezione del proprio parlato e delle relazioni intrattenute con le altre varianti del patouà o altre lingue (piemontese e italiano).
La frequentazione del villaggio da parte dell'intervistata è continuata anche dopo il suo trasferimento nel fondovalle, dopo la tragica scomparsa del papà quando aveva soli 6 anni, a seguito della madre, lavoratrice in fabbrica a Perosa Argentina. Quest'ultimo è stato uno dei paesi in cui ha trovato un impiego lavorativo la maggior parte dei bourcettini nei decenni successivi la Seconda Guerra Mondiale (anche se l'emigrazione da Bourcet era già iniziata negli anni '30 del Novecento, quando datano le prime fabbriche nella bassa Val Chisone).
Seppur l'abbandono del vallone abbia costituito una vera e propria emorragia comune a molti altri paesi delle medie ed alte valli del Pinerolese; in quegli anni neppure le borgate più impervie, quali Casette e Sappè, erano ancora del tutto disabitate, vi erano infatti gli ultimi abitanti, per lo più anziani, dediti alle attività tradizionali quali agricoltura e allevamento.
I primi ricordi della signora Liviana sono quelli dei giochi: pare non ci fossero molti bambini coetanei, sintomo che gli ultimi abitanti erano piuttosto anziani e che le famiglie più giovani si erano già trasferite per trovare lavoro. I giochi erano quelli di gruppo nelle vie della borgata Chasteiran come il nascondino (eicoundallha) o i giochi con gli animali, come con il proprio cane (vèso) e i propri gatti (per i quali utilizza l'accrescitivo chatoun). I giocattoli erano quelli che le sapienti mani dei montanari, come il padre dell'intervistata, sapevano creare grazie alla maestria socialmente e culturalmente appresa dell'intaglio del legno, erano quindi "amuzâmëns d' boc".
I ricordi più vivi vanno però all'epoca dell'adolescenza, quando la signora Liviana era solita trascorrere un breve periodo, coincidente con le ferie estive della mamma, in borgata Chasteiran, quando il paese era ancora caratterizzato dai ritorni di emigrati, legati alla terra natia. Assieme ad alcuni amici le giornate erano caratterizzate dai lavori all'alpeggio Serre, situato alle altitudini più elevate, ad una mezz'ora di cammino da Chasteiran, ed utilizzato appunto per la monticazione estiva, dove vi lavorava la famiglia della zia; dalla caseificazione e dalla mungitura (interessante il verbo specifico per indicare l'ultima mungitura: "blëchâ") e dalle serate di velhà, in Casteiran, antica consuetudine del ritrovarsi e rimasta in uso anche dopo l'emigrazione.
Per quanto riguarda l'ultima parte di intervista, quella riguardante la sociolinguistica, ovvero la percezione del proprio uso della lingua, si viene a conoscenza che l'intervistata ha appreso l'italiano alle scuole, a partire dall'asilo, ma che ha continuato a parlare bourcettino con la madre e con gli altri bourcettini trasferitisi in Perosa Argentina, pur senza avere difficoltà a comprendere gli altri patouà nonché il piemontese, dal quale si notano alcune commistioni attuali nel parlato.
La consapevolezza, poi, di parlare una variante specifica è arrivata con la possibilità di trasmettere il patouà nelle scuole di Perosa Argentina dove lei ha insegnato, in cui la maggior parte delle insegnanti patoisant provenivano dalla Val Germanasca o da Fenestrelle e con le quali si è ritrovata a confrontare le diverse parlate.
Ciò ha spinto la signora Liviana a voler approfondire le peculiarità della sua lingua ed è grazie alla sua competenza attiva, non solo parlata ma anche scritta, che si sono tratte le note relative le specificità del boursetin precedentemente citate.
PARTICOLARITÀ DELLA VARIANTE
suono fonetico per la l che si segnala con una tilde sopra tale consonante (su consiglio dell'intervistata e su proposta del prof. Telmon) o con la ł, in questo caso si è inserita ł per questioni di grafia; vale la stessa regola anche in alcune parole per la r e la m.
r molte volte sostituita da i: es. dal testo laic (larc); eibo (erbo).
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Patouà boursetin
Maria Anna Bertolino16.7 MB
18:13 min
Trascrizione:
Mi siouc naesuò en Chasteiran, la bourjà d' Bourset, la plû gròso adount la lh'à la gléizo e un' daz éicoła, siouc naesuò dâ '51 ent ël mée dë janviè, éic pasà fin a tréi ann sû, siouc iità amount, ma nounno m'à gardàvo e aprê ma mamma, quë travalhàvo a la fabbricco, î m'à pourtà aval e siouc anà a l'azilo e eiquì fin a 6 ann anàvou arè amount a la fin de sëmano përqué moun pappa e mî nonno abitàvan amount, e për lâ fèta, d'iità aboù ma nonno, e eiquì da 3 ann a 6 ann, ma a 6 ann lh'ee capità uno deigrasio en' ma famillho: al'î mourt moun pappa e parelh da ailuro siouc pâ pì mountà a Bourset përquè ma mamma alh aviò lë travalh aval e amount ouz aviônn douà stansia, ma nounno ilh'ee pâ pi1 iità a Bourset il î pèu anà a nousa d'lâ fillha en Franso e ouz avioônn plû dë apocch amount.
Mi al ee pâ quë më souvenu dë tanta choza përquè alh èro meinâ, voû pouguê pâ parlâ dë travailh quë së faziàn ma coumâ së jouàvan, alh avìa pâ d'meinâ din la bourjâ, lh'èro 3 forsi2, alh avìo la Maria dë moun agge e Mauro, bieen plu jouve, e forsi un' filhêtto d' moun agge, me couscritto, cò ilh dë 1951.
Oû s'amuzàvan aboù së quë troubàvan, alh avia pâ, saou quë "giocattoli" (amuzâmëns), moun pappa a l'èro boun dë fâ dë pëcit amuzâmënt d' boc, oû jouàvan à la eicoundallha, e peù lh'aviò pâ d' post bieen laic, oû marchàvan su pavé.
Mi aviou cò ël vèso et dë chatoun e alouro jouàvan aboù lâ bèstia oû li couriàn aprê din la bourjâ d' Chasteiran.
Pâ toutta lâ bourjâ èrou abandounà, forsi adount lh' avìo mens dë gent, l'èra à lâ Casetta ou lë Sapè; a lâ Casetta lh'iitàvo la nounno dë caire d' ma mamma ma l'èra talmënt aouta e l'èra dangeiroû marchâ ën lâ Casetta,
Më souveno quë d'iità cant së iitàvan la neuit tout' a li bachas et quî l'avìan fàit dë travalh ën la journà, qui tournàva dal champ e aprê sino së troubàvan tout' eiquì drant loû bachas e alouro chaacun countiàva saz istoria, su q'un avia fàit ën la journà, ou lh'aviòn quî la contiàva dë blagga e on pasàvan lâ velhà parelh.
E mi èi pasà bieen d'ann, fin a lî 10 12 ann, anaou mëc amount d'iità, 15 jouërn cant ma mamma avìo lâ feria d'la fabbrico përquè amount a lâ bërgerìa lh'î mountàvo lou bërgè Cleero, la sore de ma mamma il avio marià un bërgè et lh'î mountàvan d'iità ei Serre, alouro oû rëmaniàvan a Chasteiran ma tout' lî jouërn î mountàvan a l' Serre et ma mamma anàva ajuâ e peui cant siouc iità pî grando, 15 16 ann, siouc coumënsà a anâ aboù miz amîs e peui a lh'èro quî a l'à fàit la vio e èra plu coumoddi.
Al'aviouc pa tant veullho dë mountâ aboù ma mamma alouro î veniônn sampre maz amiza, ma da soulet eitantàvou. Voû dizià cant mountàvou a l' Serre dë Chasteiran... voû contiou: më souvënio quë cant al aviou 16 ou 17 ann mountà aboù ma mamma e uno d' maz amiza, a lhë ai ajouà a mountâ, a lhë ai minjà a meijouërn dâ ma dando e aprê cant a l'avià funì dë blëchâ lâ vaccha ou prenàan notre lait, un littre d' lait, e ou tournàvan. Cant sioun arribà aval al avio pâ pi ma moûtro e alouro ma mamma â coumensà a dir "dount të l'avè laisà", e a l'à më vëngu ën mënt quë m'aviouc lavà lâ man ënt un bachas dount lâ vaccha së fërmàvan a beoure cant aribàvan dâ l'arjâ et me souvënu quë l'avio laisà eiquì 'd caire.
Ma mamma a l'à acoumensâ a dire "vié tu es quë lâ bèstia lâ va enca la mallha e peui lâ crëppâ" e ou sienn partì mi e ma amizo, l'er jò câzi neuit, e ouz lh'avèn butâ 15 minutta a mountâ, de coùersio e ou sieen arribà amount e ma dando a l'avio jò viit e lh'avio arbâtâ e l'ero a sa meisoun. Ma aprê venî aval èra neùit... lh'aviò un couzin dë ma maire quë alouro a l'î vëngùo d'un trounchet (cucuzzolo) d'eiquì ou viavi Chasteiran alouro tout lë viol oû bralhàvan e ou lou reipoundiò, e ou seen aribà aval sensë aguè trop 'd poou, ma quel vê eiqui a m'na souveno.
Cant mi èro jouve, amount lh'avìo pâ nun, la lh'î mountavo encâ d'la jent dei jouërn e l'iitavan doû journ din sa meisoun ma l'era pa quë la î fouss aré caiqueun. Nouzaoutri sì, nouzaoutri î sen ità bieen 'd mai. Sicoum jò lh'éro vendùa lâ vaccha së diziò "ën gardo" ou "a l'èibo", së gardàvan tréi mée lâ vaccha dë li nëgousiant et peui lâ rëndriàn e së vënìa aval. Entrementié lh'avio lou lait për mi meinâ e la toummo.
Dei '64 ma nounno î lh a vënguò l'iità da Marsèllho aboù ma dando, sî meinâ e soun omme, al avia mountà a 76 ann î l'avia butà tout lë joùërn për mountà fin a Chasteiran e më souvënio qu'al avia fàit tappo dâ ma dando e ouz aviò fàit lë café a li Chëzalet.
Për mountâ a l'èro bieen charjà përquè la lh'avìo ma dando, ma nounno, moun barbou (l'omme d'ma dando) e un meinâ e dëviàn së portâ robbo da minjâ e ouz aviàn dëmandâ a Deiloûvit, l'èr eun filh da mariâ, 'd doû fraire e èran cò elli desëndà da Bourset e iitàvan â Roure a l' Charjau e lh'aviò cò el a l'avia nouz ajouà, a l'aviò sa bënno, lî fagot, lî "zaino", a l'avìo pourtà amount tout su laz eipàlla. Nouz aviàn pâ d'ane! L'ane î coutavo, ventavou 'l mantenî! L'avia pa 'd fen pei p'lâ vaccha!
Mi ai countinuà a parlâ ën patouà aboù ma mamma, së capî quë cant sioun vënguò a l'azilo me soun troubà bieen jenâ përquè mi capisiou pâ parollo nì dë piamountee nì dë italian ma s'ee pâ quë lh'à ëmpechâ dë ëmparâ l'italian, mi vîouc aboù ma dando quë parlàva alouro piamountee a sa fillho, ma cuzina e a l'aoutro en italian, ma së capî qu'èra pâ un italian pâ pròppi just, oû l'avian aprèe a l'eicòło.
Mi ai countinuà a parlâ ën patouà aboù tout li boursetin, lâ danda, ma ëncâ enquèu a lâ përsouna d' Bourset mi arìbbou pâ parlâ en piamountee ou italian, la rèsto un abituddo, cant ouz ann proupouzà dë parlâ e moûtrâ lë patouà a l'éicolo eiquì mi siouc iitâ countënto, së capî quë lë patouà d' Bourset al ee un paouc difrënt, mi aviou bieen dë maitressa a l'éicolo dë Peirouzo quë parlàvan patouà ma lh'èrou càzi tout l' patuà dë la Val San Martin ou d'amount dë Mentouła, dë Fënetrella, ma l'èro un patouà difrënt dë quel quë parlou mi.
Forsi ouz avènn avù dë l'ënfluënso dë patouà d' Masèl përquè dâ Col Clapiè, da la Bercio tu desendìa a Masèl, ma lî Boursëtin anàvan a Fënètrella a Prajała e â Viaaret; surtout lî jouve anavan a meitre (a servizio) càzi tout amount ën Seetrièro, ma nounno de càire de ma maire a l'ee iita a Thures, a Champlà, mi mamma avant d'la fabbrico l'ee iita a Prajałà.
Tsoza dapé 'l Clizó
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cardenshe
La Valaddo0.6 MB
0:44 min
couia
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croo
La Valaddo0.3 MB
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lone
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1:18 min
martleoure
La Valaddo0.5 MB
0:37 min
'L couìa aboù sa moul. 'L couìa a servìa për butô la moul da së pourtô aprée cont anòvon shô lou pro ou 'l gròn. Dint 'l couìa la së butov d'aig aboù 'd vinaigr për mantenî la moul bagnô e për imoulô mélh 'l dòlh ou 'l voulòm.
Il couìa con la sua mola. Serviva per tenere la mola da portarsi dietro quando si andava a falciare i prati o il grano. Nel couìa si metteva d'acqua con aceto per mantenere la mola bagnata e molare meglio la falce e il falcetto.
'L cróo dâ minô. La së vè un cróo 'd bóc 'd bletò e un barett pendùa quë servìa për abilhô la teta en costumm. Qui leitòt dapè 'l leit da peiroun a servìa për crusô lou minô, quë dzurminìo c'mà benirou.
La culla per neonati. Vedete una culla di legno di larice e un cappellino appeso che serviva per coprire la testa in costume tradizionale. Quel lettino vicino al letto dei genitori serviva per cullare i neonati, che dormivano “come dei pascià”.
La cardensh aboù soun dreisaout. L'î dont ou pendìa lou culhìa, lou cutsarìn, laz ashetta platta e iquella fondzùa, lou goublot e toû lou veiri. La cardensh a l'avìa magor, in eun tiront, la papardella e eun aoutr p'le susisse, 'l lart e p'lou mousaout. Eun tirantot a pouìa gardô lou casù ou lou cuìa 'd bóc e eun aoutr lou sitoupoun e fisella o d'aoutr 'd pëchotta baranha quë servìa toû lou dzórs.
La credenza con il suo porta posate. È dove si appendono i cucchiai, i cucchiaini, i piatti piani e quelli fondi, i bicchierini e i bicchieri. La credenza aveva spesso, in un cassetto, la pasta e un altro per le salcicce, il lardo e altri salumi. Un cassettino poteva contenere il mestolo o i cucchiai di legno, un altro il tagliere e fisella o di altre piccole cose che servivano tutti i giorni.
La lôn, 'l róit, la boubina, la sirventa e isì lh'à 'l vlaou ou 'l vindou. Isì ouz avè eun cavonh dónt lh'à lou feri për fô lâ causa, in caus duméi fait, un gramisel 'd fiël e la sirventa, faita 'd cattra boubina. Cónt î fialovon la lôn aboù 'l róit, 'l fìël s'inboubinov sû lâ boubina dâ róit. Cont î ërpilhô en plin tóp a nei fiel e î lazanzovo e nen pernìa eun aoutr a cattra boubina plìn e péi antourtilhiot fiëls magor për n'avèir eun plû gró e aprée î l'anovon sû. Sû 'l vindou, ën virent sa maneulh, a fasìou lâ marella 'd fiël la fè pouìa eun tricoutô fô caousa ou molha. La paroll sirventa la vò 'dcò dir un fenn qu'vai a servis d'un familh ou d'eun persoun për lhi ajouô ou tënìa pró sa misò.
La lana, il róit, le bobine, la serva e qui c'è il vlaou o vindou. Qui abbiamo un cestino dove ci sono i ferri per fare la calza, una calza mezza fatta, un gomitolo di filo e la serva, composta da quattro bobine. Quando filavano la lana con il róit, il filo si avvolgeva sulle sue bobine, quando prendevano un pezzo pieno di filo e ne prendevano un altro per mettere insieme più fili e averne uno più spesso. Sul vindou, girando la manovella, si facevano lâ marella di filo che uno poteva usare per fare una calza o a maglia. La parola sirventa vuole anche dire una donna che va a servizio di una famiglia o una persona che aiuta a tenere a posto la casa.
La martleour î servìa për martlô, la vò dir picô la lam dâ dòlh ou dâ voulom cont i dòlhovon pamai ou qu'î l'avìa 'd berdza. La së avol doit de fuzia lasa pul vor la martleur in la ter e sû eun tóc 'd bóc e aboù sa martel dâ cair plu soli, en acoumensov a martlô da cair plu larc la lam, per aribô fin a la punts.
La martleour serviva per martlô, che vuol dire picchiare la lama della falce o del falcetto quando non tagliavano più o avevano dei difetti. Si puntava la martleour nella terra e, su un pezzo di legno, con il martello dal lato più liscio si incominciava a martlô dal lato più largo della lame per arrivare fino alla punta.
Curiosità su Fenestrelle, in patouà
Notizie e curiosità su Fenestrelle e dintorni... en patouà! A cura di Luca Poetto.
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fenestrelle
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fenestrelle2
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0:49 min
garittedadiau
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0:31 min
madammecharle
1.3 MB
1:27 min
pequerel
0.5 MB
0:33 min
Finîtrèlla
Ël nón Finîtrèlla la semblë qu’al òe sa prouveniènsë din l’istouarë, segont caquizeuns al indicòvë la “Finis Terrae” dâ teritori dâ rèi “Cotzio” din l’epoqquë ‘d Rommë, segont d’autri â pren ël nón da l’abiteuddë dë fô lâ fënêtra dlâ mezons abou ‘d mëzura pcheutta perquè sû d’èlla la lh’èrë ‘n vièggë unë tòsë dla coumunë.
L’origine del nome Fenestrelle sembra essere storico, secondo alcuni indicava la “finis terrae” del territorio del re Cozio in epoca romana, secondo altri l’appellativo prende origine dall’ usanza di realizzare le finestre delle case con dimensioni ridotte poiché sulla misura di esse anticamente gravava una tassa comunale.
L'ònn mil set-sen-trèzzë l'aout valaddë da Clezon i pose a loû Savoia e i tornë a èsë catoliquë.
La vièe dë Finîtrèlla il à toujourn agueù unë grandë emportansë dìn l'istouaerë: Louì Catorze al à fàet ël Fort Muten, prougetá da Voban e aprèe Vittorio Amedeo II al à coumensà la fourtesa quë prènnou ël non dë "Fort dë Finîtrèlla".
La pàrt plu empourtantë il ée counoueseó c'ma Fort San Carlo, fàët par fermò loû fransé quë mënosovou toujourn l'envazion dë la Val Clezon. La grandë fourtèse il ée sul versant dé l'Oursière e il ée visitò da ën barón 'd gent quë ven din la valaddë.
La tradisions mèi empourtanta siounn: ël coustumë dë lâ fènna, ël bôl da Sabbri e loû "gôfri"
Nell'anno 1713 l'alta Val Chisone passa ai Savoia e torna ad essere cattolica.
Il paese di Fenestrelle ha sempre avuto una grande importanza nella storia: Luigi XIV ha fatto costruire il Forte Mutin, progettato da Vauban e in seguito Vittorio Amedeo II ha iniziato la costruzione della fortezza conosciuta col nome di Forte di Fenestrelle. Di questa fortezza la parte più importante ë conosciuta col nome di Forte S. Carlo, costruito per fermare le truppe francesi che minacciavano costantemente l'invasione della Val Chisone.L'immensa fortezza si trova sul versante del monte Orsiera ed é visitata ogni anno da molta gente in soggiorno nella Val Chisone.
Le tradizioni più importanti del paese sono: il costume tradizionale femminile, il Ballo delle sciabole e i goffri (cialde di farina e acqua, cotte in speciali stufe, che danno loro una caratteristica forma a quadrettini).
La garittë dâ diau
L’ée la denouminasion quë la gent il a dounà â post d’ouservasion qu’eun vée fasilment lonc la grandour dâ fort de finîtrèlla. La couragiouzë coustrusion, sla ponchë d’unë rocchë, î sariò îtô pourtô a la fin abou ‘n baron de fatiguë perquè ël diau â defaisiò ‘d nèut ël travòlh fàet din ël journ. Segon d’autri, ël diau a sariò îtà prée cmà coupablë per justifiô la dificultô incountrô e lâ fatigga daz oubriés.
Indica l’osservatorio lungo il possente sviluppo del forte di Fenestrelle. La temeraria costruzione, su uno spuntone roccioso, sarebbe stata portata a termine con molta fatica perché il diavolo distruggeva di notte il lavoro degli uomini fatto durante il giorno. In un’altra versione, il diavolo sarebbe stato preso come capo espiatorio per giustificare le difficoltà incontrate dai costruttori ed il loro faticoso procedere.
Pëquerèl
La lh’a amens trée enterpretasions per ël nón de sée paî: quî dì quë soun nón ven da unë plantë dla famillhë dâ gran “la festuca paniculata”, qu’ isì on demande querèl; quî souten qu’â venë da Pin Cairel eun chanteur dâ “medioevo”qu’â s’éez ecoundeù ichaut aboù sa caenhère quë soû parens vouiònn pâ laesô mariô ‘bou él: e a la fin quî dì qu’ â ven da “pycarèlla”, ël bâton quë doû bergés aviònn servì per së battrë, e eun d’èllou èrë îtà teà.
Esistono tre possibili interpretazioni per il toponimo che caratterizza il nome di questo villaggio: c’è chi sostiene che il nome venga dalla “festuca paniculata”, graminacea localmente detta kéerel; chi da Pin Cairel, giullare medioevale qui rifugiatosi con una giovane i cui genitori si opponevano alla loro unione, chi in ultimo ne declina l’origine da “pycarella” duello svolto da due pastori e conclusosi con la morte di uno di loro,
La plattë de madammë Charlë
La lh’èrë ‘n vièggë unë fantinë ‘d nón “madammë Charlë” quë, suz unë carossë tirô da doû cavaus blancs, il anòvë arant e arèirë per loû brics dë notrâ mountanha. Loû bergés quë dan la bèllë sazon î mountovou â l’Alberjàn ou din ël valon ed Crèetòvë î faziònn afidament à èllë. Il èrë ‘n baroun bròvë: din l’îtà î gardòvë ‘l troupèl dlâ bèscha ‘n pâturë e din l’uvèrn lâ bergeriô da la neò e da lâ chalancha. Vît quë tû louz ans din lâ crotta dlâ bergeriô la lh’èrë ‘n baron dë ratta quë malhovou loû froumaggi, eun journ loû bergés quë sabion pâ mèi cmà së dëfendrë,il onn pensà dë demandô a madammë Charlë dë fô cacaren per louz ageô. èllë , sens së ‘z fo dirë tanti vièggi, abou encantament, il a faet en manhèrë quë lâ ratta laz anèssou leunh dë lâ mezons e loû froumaggi î pouguèssou mèerô sèns èsë touchô. Ma l’encantament durovë mequè fins â journ dë sen Michèe (29 dë sëtembrë), aprè la ventòvë quë loû bergés së debrulhessou: ou chendrë avòl per vendrë loû froumaggi ou loû beutô din ëd crotta plû sëgura. Ën mountent â col dl’Alberjan, eun po vée, sla créitë quë sepòrë ‘l valon dl’ Alberjan dâ vaalon de Crèetòvë, la tombë dë madammë Charlë e l’ée par iquén quë ‘l versant quë chent â rioù dâ Crèetòvë së demandë “plattë de madammë Charlë”. Loû bergés î duvou ésë devòtti a sèttë fantinë.
C’era una volta una fatina di nome “madame Charle” che, su una carrozza trainata da due cavalli bianchi andava avanti e indietro tra le vette delle nostre montagne. I pastori che durante la bella stagione salivano al colle dell’ Albergian o nel vallone di Cristove, facevano affidamento su di lei. Era molto brava: in estate custodiva le mandrie degli animali al pascolo e in inverno le baite dalla neve e dalle valanghe. Visto che nelle cantine delle malghe ogni anno vi erano tantissimi topi che mangiavano i formaggi un giorno i pastori, che non sapevano più come difendersi, pensarono di chiedere a madame Charle di fare qualcosa per aiutarli. La fata, senza farselo dire tante volte, con un incantesimo, ha fatto si che i topi se ne andassero lontano ed i formaggi potessero maturare senza essere toccati. Ma l’incantesimo sarebbe durato solo fino al giorno di san Michele (29 settembre) dopodiché bisognava che i pastori si sbrogliassero: o scendere a valle per vendere i formaggi o metterli in cantine più sicure. Salendo al colle dell’Albergian, si può vedere, sulla cresta che divide il vallone dell’Albergian dal vallone di Cristove, la tomba di madame Charle ed [ per quello che il versante che scende al rio di Cristove si chiama platte de madame Charle. I pastori devono essere devoti a questa fatina.